Articoli su Giovanni Papini

1977


Umberto Carpi

Papinismo e neovocianesimo

Pubblicato in: Lavoro Critico, fasc. 11-12, pp. 217-228
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Data: luglio - dicembre 1977



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   Con l'approvazione di Borges da Santiago del Cile, in Italia si celebra un avviato revival papiniano, che minaccia di trovar credito, come altri analoghi, in alcuni ambienti intellettualmente disorientati e, per conseguenza, di voler durare 1: né in questi grami tempi di « nuove filosofie » (non tutte e non sempre programmaticamente fuori dall'ambito della sinistra) il fenomeno deve destare soverchia sorpresa. Già sepolto politicamente (Gramsci), letterariamente (Pancrazi), eticamente (Russo), l'equivoco mito di Giovanni Papini era rimasto a lungo confinato nell'agiografia clericale (Bargellini, Bo, Apollonio) e nei sottoscala dell'apologetica fascista (Vettori, Horia): anche la recente presa d'atto di certa sua rappresentatività epocale da parte di studiosi del primo Novecento (Garin, Frigessi, Scalia, Santucci), se aveva posto la richiesta di un giudizio storico che più articolatamente definisse l'antico Gian Falco, non aveva affatto mostrato di voler rovesciare in recuperi riabilitanti l'antica tendenza liquidatoria. E questa consolidata idiosincrasia per lo scrittore dallo stile sempre increspato da cerebrali eccitazioni, con il complementare ostracismo decretato all'ideologo incrollabilmente (anche se variamente) reazionario, costituiva comunque un sintomo di saldezza d'orientamenti politico-culturali, salvo il bisogno di analisi che meglio fondassero la pur legittima ripulsa etica e di gusto. La quale infatti, di fronte ai modi e alle motivazioni dell'attuale campagna di recupero, si mostra di per sé, per quanto ancor degna di viva simpatia, inadeguata ai livelli nuovi della discussione: se il «nipotino di padre Bresciani » bollato da Granisci come « turpe somaro » e fotografato da Russo come quintessenza della « frigidità e aridità » viene riesumato da certa attuale intellighentsia, noi abbiamo l'obbligo di spiegare politicamente il fatto e dobbiamo soprattutto individuarne il significato attraverso la definizione della storicità reale di Papini.
   Cominciò Isnenghi con un Papini (Firenze 1972) intriso di simpatia per il « guerrigliero intellettuale » e determinato a rivalutarne emblematicamente (giungendo all'eccesso di esaltare un testo come le Lettere agli uomini di papa Celestino VI) una potenzialità eversiva e ribelle rispetto al potere, appariscente soprattutto nella fase della giovanile


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scapigliatura fiorentina, ma capace di qualche sussulto anche negli anni più tardi. Ho già discusso in altra occasione (« Problemi », 1975, 43, pp. 238-45) l'immaturità prepolitica che trasuda dal papinismo di Isnenghi, la logica corporativa e subalterna delle sue nostalgie sessantottesche: a quelle pagine rinvio senza ripetermi (e senza ribadire l'apprezzamento che comunque meritano l'informazione e l'acutezza dei lavori isnenghiani, non usuali in quel settore letterario e politico). E' ben vero che Isnenghi si cautelava segnalando ad ogni pagina gli exploits reazionari (quando non le vere e proprie turpitudini) senza posa perpetrati dalla penna del Papini ed assicurava che « niente poteva renderli appetibili e persuasivi (op. cit., p. 75): ma in realtà, altrettanto puntualmente, I'Isnenghi appetiva. Appetiva, s'intende, le « ambizioni protestatarie » al di là dei « successivi esiti clericali e fascisti »; ed appetiva soprattutto, illudendosi di sovvertire « una fattizia visione moderata e legalitaria della storia », quello che a lui pareva un « groviglio contraddittorio di spinte potenziali che anima Papini eversore dei valori liberali e socialriformisti ». E' la nota tesi isnenghiana della « reversibilità », della « ambivalente disponibilità verso i moti radicali in quanto tali ». Non so cosa Isnenghi pensi delle equivoche ideologie minoritario-antiistituzionali pullulate in questo 1977 a confortare le ormai irreversibili imprese della cosiddetta area dell'autonomia: ma certo quella sua simpatia per il « teppismo » papiniano, quel suo allusivo apprezzamento per la papiniana « intuizione della crisi dei partiti storici e del nuovo ruolo che i movimenti spontanei e rinnovate aggregazioni sono chiamati a giocare nella storia prossima », quel suo spropositare, a giustificazione del violento antidemocraticismo del giovane Papini, intorno a « una nozione moderata di antifascismo, che assimila necessariamente al fascismo le posizioni di fronda antidemocratica e antiparlamentare »; tutti questi segnali papiniani, insomma, indicano come un subalterno persistere nelle mitologie movimentistiche dei '68 (sottoposte, invece che a maturazione politica, a ideologizzazione letteraria) precorresse i termini della degradazione settantasettesca. Nella varia fenomenologia della disgregazione e del corporativismo intellettuale poteva ben tornare a galla anche il fraterno e gratificante relitto dell'uomo finito.
   L'errore di Isnenghi era, prima che storiografico, politico: stava, piuttosto che nel riconoscimento del ribellismo sociale e dell'inquietudine storica che avevano animato l'intellettuale Papini, nella loro ideologica assunzione come valori politici. Invece di conoscere quella condizione primonovecentesca e di sottoporne a critica le forme di coscienza attraverso cui si era espressa, Isnenghi la schiacciava sul modello della propria crisi generazionale: fino al colmo di rintracciare (op. cit., pp. 203 seg.) nel Giudizio una traccia prefanoniana, un archetipo del terzomondistico incontro fra intellettuale di Occidente e diseredati della terra.


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Non tanto errore di metodo dunque, quanto politico: radicato, voglio dire, in una distorta ottica del presente, in un'analisi prepolitica e, ribadisco, corporativa della condizione intellettuale oggi. Nel Papini di Isnenghi precipitavano esasperate frustrazioni sociali e relativi bisogni di risarcimento, senso di emarginazione e insieme urgenza di autopromozione politica, insomma tutte le inquietudini di una crisi vissuta in modo ancora oggettivo e passivo: un « teppismo » subalterno alla ricerca di consolanti e gratificanti esemplarità. E gli esiti catastrofici della « reversibilità » papiniana finivano per diventare un trasparente apologo„ non so se più terrorizzato o minaccioso, intorno ai rischi (per la classe operaia e più in generale per il movimento democratico) di un'insufficiente valorizzazione delle potenzialità ribellistiche espresse dalla analoga ambivalenza odierna: rischio di variamente ingaglioffirsi per l'intellettuale confinato ai margini del movimento, rischio di moderatismo per un movimento che non faccia propria la fretta eversiva degli intellettuali. Che sono, s'intende, problemi effettivi, da ricondurre alla questione centrale del rapporto fra classe operaia ed intellettuali: ma risolvibili nell'ottica dell'egemonia della classe operaia, non certo in quella del primato intellettuale e d'un'irriducibile separatezza.
   Il libro di Isnenghi, con la sua strenua rivalutazione del Papini ideologo iconoclasta, era comunque assai importante, in quanto sottintendeva e di fatto proponeva una lettura dei vociani e del vocianesimo di preciso spessore politico, per certi versi analoga a taluni aspetti del dilagante rilancio futurista. Fa seguito ora, non meno impegnativa come sforzo di recupero, l'antologia mondadoriana scelta e introdotta da Luigi Baldacci: e non saremo noi a dolerci per un'operazione editoriale filologicamente accurata e comunque utile sul piano della riproposizione documentaria di materiali primonovecenteschi. Detto questo (e senza in alcun modo minacciare personali velleità di antologizzazione alternativa), bisogna precisare che il criterio selettivo del Baldacci risulta un po' troppo drasticamente giovanilistico e, anche sul piano della mera informazione, lascia molto perplessi. Chi infatti si accostasse a Papiri attraverso la lettura dei testi qui radunati non verrebbe neppur sfiorato dal sospetto d'aver a che fare con uno scrittore caratterizzato per quarant'anni, piaccia o no e malgrado qualsivoglia occultamento o minimizzazione, dalla più plateale e convinta professione di oltranzistico integralismo cattolico e di fascismo-razzismo: che non è un terroristico recriminare per chiudere la discussione in partenza e per imporre sommarie liquidazioni, ma un franco e preliminare bisogno di ricordare i fatti e di chiamarli col loro nome. D'altronde, anche a prender per buona l'esclusivistica periodizzazione baldacciana, non si giustificano omissioni come quelle, incomprensibili, dei racconti fantastici del Tragico quotidiano, del Pilota cieco e di Parole e sangue e degli articoli vociani,


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operate a vantaggio d'una compiaciuta esemplificazione dello squallidissimo e deteriore genere della stroncatura, nel quale Papini esaltava le sue più deleterie propensioni di squadrista della penna. Ma non questo, che pure andava accennato, è il punto qualificante della discussione senza dubbio richiesta dal lavoro del Balducci: la cui antologizzazione, d'altronde, discende coerentemente dal giudizio su Papini proposto nell'introduzione.
   Mentre Isnenghi aveva puntato sul politico-ideologo, Baldacci punta sul filosofo-avanguardista: anzi, per usare un'autodefinizione del Papini protagonista di serate futuriste, sull'antifilosofo-avanguardista. Per Baldacci, pur fra distinzioni e reticenze, Papini lacerbiano finisce per rappresentare, assai oltre il milanese marinettismo, la punta avanzata dell'avanguardia italiana. La tesi lascia subito interdetti, anche se non sarò io ad entrare nella logica delle graduatorie per meriti avanguardistici: ma certo si ha l'impressione netta che il Baldacci scambi per avanguardia il plebeismo di Papini e, nel suo complesso, il lirismo toscano-vociano di « Lacerba » e della sua episodica e precaria alleanza col movimento futurista. Certo è comunque che Papini, già acquisito per opera dell'Isnenghi al novecentesco esercito dei potenziali eversori antiistituzionali, resta ora complementarmente acquisito, per opera del Baldacci e sul piano più specifico della milizia filosofica e teorico-artistica, anche alla famiglia dell'avanguardia: ha insomma tutte le carte in regola per diventare un best-seller antiautoritario. Con buona pace di chi fosse rimasto col banale pregiudizio d'un Papini prima nazionalista-antidemocratico, poi cattolico integralista, infine compiutamente fascista ed appagatamente accademico d'Italia, nonché sempre frigidissimo esibizionista della parola. E' ben vero che Baldacci (p. XVII) riconosce che al fondo dell'antifilosofia papiniana agisce sempre una prevalente istanza antimarxísta, ma poi i pregi filosofico-avanguardistici del Nostro vengono recuperati con la considerazione per cui egli « che pure era antimarxista [...], credeva nella filosofia come in uno strumento per cambiare il mondo » (p. XI): dove, a parte il fatto che non nella filosofia bensì in una sorta di Io teppistico confidava Papini per le sue rivoluzioni, è da segnalare la singolarissima concezione del marxismo che trapela. Ma, superando lo sconcerto per questa cortina fumogena di paradossi critici e politici, bisogna ricondurre il problema Papini, sia pure per sommi capi, entro coordinate storiche plausibili.
   Per il giovane Papini prediletto da Isnenghi e da Baldacci risulta d'obbligo prendere le mosse dal clamoroso, provocatorio, puntiglioso sfoggío di superomismo, anzi di ambizione superomistica, che viene esibito, da « Leonardo » fino a « Lacerba », nelle varie accezioni del diventar genio, del magismo, dell'Uomo-Guida, del parafuturista creatore-distruttore geniale. Ma bisogna subito precisare, a scanso di equivoci, che abbiamo a che fare con un


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superomismo (e con un suo scontato corollario di velleità ribellistiche e avanguardistiche) dalla caratura palesemente, mi si passi lo schematismo espositivo, mezzadrile. Che è un segno comune ai ' beceri ' Papini e Soffici (e ad altri minori come Agnoletti): si tratta del filone più autenticamente fiorentino del vocianesimo. Non altra risulta la misura dell'anarchismo di Agnoletti così come il mazziere Lemmonio Boreo esibisce una logica ed una violenza non già da squadrista antioperaia né da campiere di sterminati e paurosi latifondi, bensì da predicatore-picchiatore itinerante tra fattorie e villaggi, guidato da una morale per niente parigina ed arieggiante piuttosto quella a suo tempo fissata dal laico Thouar e dal cattolico Lambruschini. Ma è soprattutto. Papini che trasuda questa regionalità mezzadrile, neppure illeggíadrita dalle esperienze francesi di Soffici: altro che fiorentinismo di linea dantesca e michelangiolesca, di « arte maschia » e di « arte plebea »! (Le due tradizioni letterarie italiane, p. 739). Quel che Isnenghi e Baldacci non hanno avvertito è lo spessore dell'anima agrario-toscana di Gian Falco: il ribellismo e l'avanguardismo che essi hanno rispettivamente privilegiato sono, non dirò inesistenti, ma espressioni particolari d'una complessiva disposizione al rifiuto arretrato d'una moderna società in sviluppo. Papini avverte in pieno la crisi d'identità che investe la generazione intellettuale dell'età giolittiana, ma in lui essa collide con una adesione di fondo alla chiusa ottica precapitalistica e tradizionalista tipica della toscanità mezzadrile: ne deriva una singolare miscele di sollecitazioni nazionali-europee e di richiami locali-agresti, che nel Papini giovane dà luogo ad un'urgenza dl promozione superomistica innestata nell'idillismo dei poderi e dei valori di Bulciano, mentre nel Panini maturo assumerà le forme estreme (in esemplare accoppiata col Giuliotti) d'un cattolico rifiuto medievale e contadino. Non è casuale la biografia di questo scrittore così reattivamente coinvolto nei processi di massificazione d'un capitalismo avanzato e così tenacemente aggrappato al suo modello regionale di civiltà: e neppure è un caso che fin dagli esordi Papini tentasse di risolvere la contraddizione escogitando la nota tesi della scuola idealistica « fiorentina » e persistendo poi incrollabilmente nel mito d'un'ideologia plebeo-virilistico-dantesca, con una sorta di weiningerismo adattato n misura toscana. Ancora, non è casuale il ruolo periferico ( e significativamente anticittadino e filocampagnolo) svolto entro un organo di aggregazione nazionale quale « La Voce ». Ma soprattutto mi pare significativo il fallimento milanese, come direttore di giornale, patito dal giovane Papini nel 1908 con l'immediato aborto del « Commento ». Di questa rivista, progettata insieme a Casati e con la collaborazione di Soffici, uscì un solo numero, che recentemente è stato ristampato e corredato d'un'ottima introduzione e d'un ricco apparato informativo da Franco Contorbia (Genova, ed, II


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Melangolo, s.d. ma 1976). Esauritasi la fiammata del « Leonardo », Papini tenta un rilancio milanese con questo foglio « improvvisato in 3 giorni » (lettera a Prezzolini del 2 marzo 1908, in Storia di un'amicizia (1900-1924), Firenze 1966, p. 165): la freddezza di Prezzolini, che con ben altra intelligenza politico-culturale stava accingendosi alla grande impresa della « Voce », è significativamente assoluta nei confronti della precipitosa iniziativa papiniana. Ma a colpire non sono tanto la faciloneria e l'improvvisazione o la disponibilità a distrarsi in esibizioni di un giorno e al di fuori d'ogni disegno strategico, che non sia quello egotistico dell'autopromozione: colpiscono piuttosto la sorda e indiscriminata ostilità, la maldicente e moralistica arretratezza con cui Papini pilucca i grandi problemi politici e intellettuali, che « La Voce » saprà invece affrontare globalmente. Lasciamo stare l'assai poco ribellistico ed avanguardístico perbenismo che intride queste pagine: certo è che Papini progetta un giornale tra le fabbriche di Milano con lo stesso tono, con lo stesso taglio, con lo stesso sfondo asfittico con cui le avrebbe progettato fra i campi di Bulciano. Anche accogliendo per ur attimo il senso che Isnenghi e Baldacci attribuiscono a queste definizioni, Papini è troppo sordo ai ritmi della società moderna per essere seriamente credibile come effettivo ribelle ed avanguardista: perché il suo orizzonte è quello degli appoderamenti toscani e il suo respiro politico, al di là dei vari artifizi d'eccitazione della scrittura, non riuscirà mai a superare questo limite strutturale. Già Contorbia ha discusso acutamente i vari articoli del « Commento » e sarebbe pleonastico insistere: basti ribadire che quel che soprattutto ne emerge è l'incapacità papiniana ad esprimere una visione unitaria dei problemi, la mancanza d'un'ottica all'altezza dei tempi. Papini, in altre parole, risulta inabile alla politica, resta sempre moralisticamente subalterno all'oggettività della propria stessa crisi: anche il più appariscente filo conduttore di queste pagine (e in generale dell'opera sua), cioè la vistosa ed esclusiva rivendicazione del primato intellettuale, non si esprime mai nei termini di una prospettiva politica e culturale di aggregazione degli intellettuali, di rapporto con lo stato. C'è, sempre e soltanto, la richiesta immediata di risarcimenti individuali, d'una taumaturgica promozione personale; « tramutarmi in santo ed in genio », « vivere una vita eroica ». D'altra parte le suggestioni d'un'opera come Un uomo finito stanno proprio nell'esibizione senza reticenze di questo modo solipsistico di vivere e comporre la lacerazione storica: « L'universo è diviso in due parti: io — e il resto »; « Io non voglio accettare il mondo com'è e perciò tento di rifarlo colla fantasia o di mutarlo colla distruzione. Lo ricostruisco coll'arte o tento di capovolgerlo colla teoria. Son due sforzi diversi ma concordi e convergenti. Così come sono e come ormai rimarrò sento d'essere anch'io una forza creatrice e dissolvitrice, sento


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di essere un valore, di avere un diritto, una parte, una missione fra gli uomini » (ma questo capitolo Chi sono, pp. 370-4, meriterebbe di esser citato per intero). Qui emerge quel papinismo che è stato in effetti un dato generazionale e che Papini ha solo avuto la ventura, non dirò il merito, di esprimere senza riserve e quasi di incarnare, portandolo ai limiti della nevrosi parossistica. Tanto più la predicazione del ribellismo pretende al carismatico, tanto più è costretta a risolversi senza mediazioni nello strumento tutto formale d'uno stile moralistico-letterario: « Qualunque sia il governo del mondo sarò sempre all'opposizione. L'espressione naturale del mio spirito è la protesta; l'attitudine spontanea del mio corpo è quella dell'assalto alla baionetta; la mia figura preferita è l'invettiva e l'insulto. Ogni canto d'amore si muta su' miei labbri in ritornello di rivolta; tutte le più cordiali effusioni son troncate ad un Pubblicato in: uno scoppio di riso, da un ghigno, da una irosa spallata. Oh se ogni mia parola fosse una palla di carabina fischiante nella libertà dell'aria; ogni mia frase un getto di fuoco; ogni capitolo una barricata ben difesa; ogni mio libro un masso di macigno vasto e grave si da pestare e spiaccicare i teschi pelosi di un popolo! » (ibidem, pp. 376 seg.). Parrebbe, questa, l'esaltata ma anche esemplare immagine del giovane intellettuale italiano di quei « primi dieci anni del secolo XX » cui Rebora consacrava i Frammenti lirici: e il papinismo, ribadisco, fu davvero uno dei dati oggettivi di quella storia. E' noto d'altronde lo sforzo compiuto da quasi tutti i maggiori scrittori vociani per definire il proprio rapporto con Papini, in genere per assicurare la propria distanza da quel loro rumoroso ed imbarazzante compagno: in realtà facevano i conti (e tentavano di renderli altro da sé) con stati d'animo e con tentazioni che erano dentro di loro e che Papini, per esempio nell'Uomo finito, registrava allo stato puro e sublimava, senza filtro che non fosse quello dello stile. Al fondo di tutto, come vero e proprio segno storico, il terrore d'esser ridotto allo stato di scrittore di massa e per le masse, di diventare « cortigiano della moltitudine sovrana » (p. 338), fosse essa plebea o borghese: il nostro Papini-tipo si dichiara verbalmente pronto ad ogni alternativa (purché pittorescamente emarginata, dal mendicante al cenciaio al saltimbanco itinerante), a patto che venga evitata e fin superstiziosamente esorcizzata la degradazione, sentita come sola effettiva e sostanziale, a scrittore-buffone. Una salvezza cercata, fuor d'ogni processo politico, nell'isolamento sociale ed intellettuale (« Non ho altra forza che nell'intelligenza, non ho amici che tra i morti, non ho piaceri fuori dei libri », p. 349) e nella sua celebrazione, attraverso l'immancabile escamotage della separatezza conoscitivamente privilegiata della poesia, come progetto alternativo di azione e direzione: « E così mentre aspettavo di piegare e rifare il reale coi prodigi della volontà sublimata, andavo creando il rifugio


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di una realtà provvisoria popolata dai docili spettri dei sogni. La poesia è scala alla divinità e il lavoro dell'arte è già principio di creazione. Poeta e profeta per oggi — e Dio, forse, domani! » (p. 236).
   La reidentificazione in quanto scrittore tentata dal Papini-tipo fluttua in uno stato di perpetua precarietà, incalzata dalle domande della storia e determinata ad eluderle attraverso la girandola di forme di coscienza sciorinate dagli illusionismi del mago, poeta ed aspirante-Dio. Il gioco è scoperto: scontentezza e frustrazioni anarcoidi sussultano con velleità d'eversione letteraria e con caute fregole terroristiche contrapposte ai tempi lenti della democrazia (« gli stessi tentativi e programmi rivoluzionari e umanitari, che mi sembravano, prima, qualcosa di grosso, s'eran mutati ai miei occhi in stupide fanciullagini di credenti laici e inesperti. Ben altro ci voleva per me. La liberazione interna, ideale, radicale, di tutti gli uomini e se mai, qua e là, per aiutare il futuro, qualche barile di vera dinamite », p. 203), per approdare all'impresa autopromozionale (p. 260: « Bisogno antico di esser capo, guida centro [...]. Confesso: non m'importava di che né perché, ma che gli occhi di tutti fosser rivolti su di me ») e programmaticamente antipopolare ed antisocialista (« E fui socialista - socialista a rovescio: accettai la lotta di classe. Ma che fosse vera lotta, guerra in veri termini, non già aggressione dell'affamato imbaldanzito (il popolo) contro il padrone tremolante e accomodevole. Lotta di classe: cioè difesa della classe che ha fatto e che ha vinto contro la classe che vuoi farla abdicare prima del tempo. Difesa borghese: poca pietà; politica di ferro », p. 261): quest'impresa è il giornale, è la rivista, come piace dire, d'avanguardia (« In che modo? Fondando un giornale », p. 204 - « Fui redattore capo del primo giornale nazionalista italiano », p. 261). Il 'reversibile' Gian Falco, in verità, non esitò granché nelle scelte: ma i 'reversibili', quando rifiutano di passar per la politica, non tardano mai a scivolare lungo il versante di destra.
   Papini-tipo « credeva con tutta la forza dell'anima di avere una grande missione nel mondo »: e questa certezza dell'anima, che rovesciava « magicamente » in potenzialità dirigente un'impotenza storica e sociale, diventava in fondo la sostanza stessa dell'attività papiniana. E' sintomatica la nota lettera a Prezzolini del 10 novembre 1907, in cui Papini disegna il proprio autoritratto di aspirante messia ed eversore (« Eppure questo bisogno di far da guida è invincibile in me » - « Facciamo dunque la rivoluzione! Tu hai del tempo libero »), comunque orientato verso obiettivi spiritual-reazionari: « Si trattava del Partito Intellettuale. Oggi, in fondo, la tendenza è la stessa. Io sono perseguitate da questa idea: di far predominare la vita spirituale nel mondo [...]. Bisogna fare il Nuovo Testamento rispetto al Manifesto dei Comunisti. In questo c'era la terra, la materia, il Messia economico. Noi altri dobbiamo dare


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un significato spirituale al Regno d'Iddio o dello Spirito Santo ».
   Papini insomma era il più passivo e scoperto, in quanta il meno politicamente critico, interprete e celebratore del papinismo: ne fece, alla fine, un abito e una professione. Ma, mentre protesto contro l'intimazione di assumere oggi questo papinismo come un valore, contrabbandandolo per un dato soggettivo di attitudine rivoluzionaria invece di riconoscerlo come oggettiva emergenza della crisi nelle sue forme più torbide e perdenti, io invito anche ad osservare quali fossero i risvolti, lo specifico retroterra della singolare esperienza papiniana, di questa sua tenacia autopromozionale. Non penso soltanto a questioni etico-esistenziali, che pure esistono: quando Papini (nella lettera a Prezzolini appena citata) scriveva che « il sonar la tromba per gli altri è un'assicurazione contro la propria vigliaccheria » mostrava di essersi intuito, lui così poco autocritico, assai meglio di quanto lo comprendano ora taluni suoi apologeti. Ma, come ho già accennato, il punto è un altro: lo spessore storico di Papini è dato dall'incrocio fra papinismo e toscanità. Dietro la rutilante facciata dell'esibizionismo terrorizzato e provocatorio si agita la ricerca continua di radici, di un terreno e di una tradizione che offrano valori ancoranti. Naturalmente, ed è il vistoso punto di sutura fra i due risvolti ideologici (per schematizzare: quello nazionale e quello regionale), anche la Toscana offre materiali importanti per la costruzione ed autorizzazione del mito dell'intellettuale e scrittore guida: la teoria della personalità che tanti suoi sodali vociani assumevano da Weininger e dalla mitteleuropea Vienna della finis Austriae, Papini la surrogava con « il nerbo, un tal senso plebeo di realismo robusto » assicurati dalla « gagliardia di Dante », dall'« asciuttezza di Machiavelli », dalla « terribilità di Michelangelo », dalla « curiosità di Leonardo », dalla « penetrazione di Galileo », da tutta la tradizione culturale toscana (« Eppoi intendo per Toscana i grandi toscani e il loro genio », Un uomo finito, p. 365); analogamente i padri scrittori (« che eran miei per diritto di nascita e di rinascita ») venivano elencati nella trafila inequivocabile Dante - Compagnoni - Boccaccio - Sacchetti - Machiavelli - Redi - Carducci (« Fu come il viaggio di un esiliato al posto della sua balia », pp. 367 seg.). Ma, a suggellare questo ineccepibile pedigré etico-letterario, Papini colloca imprevedibilmente Gino Capponi, il più recente e tipico ideologo di una toscanità ferma e mezzadrile: è dentro questa cornice che nasce ed agisce il superomismo di Gian Falco, Adolescente, l'« uomo finito » avverte in modo quasi fisico il patrimonio di valori elementari (« A me piaceva tutto quel che era semplice e rozzo [...] quello che dava il senso della durezza, della solitudine, della vita sana e senza giardinieri », p. 170), che questa civiltà-campagna è in grado di assicurargli: « La campagna che sento io, la campagna mia, è quella di


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toscana, quella dove ho imparato a respirare e a pensare; campagna nuda, povera, grigia, triste, chiusa, senza lussi, senza sfoggi di tinte, senza odori e festoni pagani, ma così intima, così familiare, così adatta alla sensibilità delicata, al pensiero dei solitari. Campagna un po' monacale e francescana, un po' aspra [...] Campagna sentimentale della mia fanciullezza; campagna eccitante e morale della mia gioventù, campagna toscana magra ed asciutta » (pp. 170 ag.). Poi, ormai maturato e deciso ad avere « a tutti i costi un avvenire » come intellettuale « che ha mangiato a tutti i banchetti intellettuali d'Europa », l'« uomo finito » ha bisogno di tornare ad odorare « l'odor vero della terra », di riallacciarsi ai suoi « progenitori contadini, ai buoni villani plebei », di rimettersi « in regola colla vecchia famiglia» (p. 366); e nella stessa struttura di « questa storia drammatica del suo cervello » è ben significativo che, ai conclusivi capitoli in cui definisce la propria fisionomia intellettuale (Chi sono, Dichiarazione di stile), venga immediatamente premesso il passaggio obbligato di Il ritorno alla terra: « Per riprender le forze ho dovuto riagguantare quel pezzo di mondo che mi era più contiguo ed affine. Ora che ho succhiato di nuovo alle poppe della prima madre e ho risentito la sua parlata - or che mi sento il corpo rinsanguato e la lingua più sciolta posso riprender la strada verso il mio vero destino » (p. 369).
   Non era dunque un paradosso che Papini esordisse sui primi numeri della « Voce » con un perentorio La campagna e con un invito all'idillio e alla sanità agresti: veniva anzi definita pienamente una personalità storica in cui professione di antifilosofia e fede agraria, disgregazione generazionale e identificazione regionale costituivano elementi complementari. Si spiega dunque benissimo il graduale risolversi del 'reversibile' Gian Falco nelle univoche certezze del terziario francescano fra' Bonaventura. Non sostengo affatto che Papini sia stato prefascista: innanzi tutto perché ritengo anch'io che quella del prefascismo sia una categoria ambigua, poi perché non c'è alcun bisogno, per avallare l'astio antidemocratico, antipopolare e antisocialista di Gian Falco e dell'« uomo finito », di ricorrere al senno del poi. Lo scrittore frustrato, che col suo bisogno di risarcimenti reagisce sia alla massa borghese sia alla massa proletaria nel nome d'una esasperazione individualistica ed aristocratica del ruolo dell'intellettuale come soggetto del pensiero e dell'arte, si scopre subito: « Un borghese medio e un operaio son comuni anche in questo: che non capiscono né una sinfonia di Wagner né un paradosso di Nietzsche » (in « Leonardo », 1903, I, 5, p. 3); ma questo elitarismo (insofferente più che ribellistico), filtrato attraverso un'ottica arretrata e priva di articolazione politica, cade subito nel lazzo qualunquistico: « L'ingegno è di pochi e conservatori e socialisti son molti: presi in massa son dunque inintelligenti, perciò antintellettuali.


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Tanto un banchiere che un fabbro ferraio si accordano a dire ch'è perfettamente inutile studiare la metrica d'Omero o il problema dell'infinito » (ibidem). Da un lato c'è la coscienza dell'irreversibile scissione determinatasi fra direzione dello stato e intellettualità, fra politica (prassi) e cultura (teoria), e dunque della perdita di funzioni da parte dell'intellettualità stessa: « Infatti gli intellettuali son sempre più scartati dalla classe dirigente. E la classe dirigente, almeno in questo, non ha torto. Infatti gli uomini di riflessione son troppo amletici per riuscire nell'azione » (Il crepuscolo dei filosofi, p. 531); d'altro lato, per reazione, Gian Falco si preoccupa subito nel 1905 di fondare sulla sua nozione di pragmatismo la verifica dell'inutilità dei partiti politici e il loro superamento (Sul pragmatismo, pp. 114-8), mentre nel 1913, a differenza dei sodali futuristi che elaborano il loro primo « programma politico », il Papini di « Lacerba » predica la soppressione della politica stessa, anzi « la necessità, per gli uomini intelligenti — cioè che tengono più alla libertà dello spirito che all'agiatezza e alla vanità — di non occuparsi di quella che oggi si chiama politica » (« Lacerba », 1913, 19, p. 215). Ho già accennato al Partito Intellettuale (o Spirituale) che Papini invocava sul « Commento » e in lettere private: preso atto che la funzione politica dirigente degli intellettuali risulta ormai logorata, Papini reagisce col suo solito gusto per le soluzioni « magiche », elimina la politica e i suoi soggetti istituzionali e celebra senz'altro, con quello dello spirito, il riscatto degli «intelligenti » suoi sacerdoti. E', a suo modo, una rivoluzione, che come tale esibisce anche la propria disponibilità ad una specifica nozione di violenza: e dalla becerata fino al sangue », precisa Papini (L'esperienza futurista, p. 415). Ci vuole molta ingenuità politica per interpretare come implicita denuncia delle brutture del 'sistema' l'apologia della violenza professata in La vita non è sacra, dove invece il vecchio antindustrialismo ed anticapitalismo moderato-campagnolo dei Capponi e Lambruschini torbidamente si accoppia con l'ossessionante odio verso le masse (« la marmaglia trabocca », a un'infinità di gente ch'è assolutamente inutile e superflua »), per partorire il canonico auspicio della guerra, dell'« assassinio generale e collettivo ». Io conto che reversibili siano ancora taluni intellettuali odierni, sta certo non lo era già più Papini quando dichiarava (qui sta il vero problema) « io sono teppista, è arcivero. Non c'è, nel nostro caro paese, abbastanza teppismo intellettuale » (L'esperienza futurista, p. 428): dove non è tanto qualificante l'odiosità della forma, quanto la sostanza ideologica del discorso, le scelta d'un modo tutto corporativo e non politico di risposta alla crisi, la soluzione gelosamente di ceto e di casta. E' ben vero che Papini ripassa il concetto nelle tinte per lui inevitabili del toscanismo (a questa mia nativa ed invincibile inclinazione al becerismo spirituale »,


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ibidem p. 429), così come, mentre inneggia alla « poesia libera e pazza » (ibidem, p. 439), elabora i versi idillico-agresti poi stampati sulla « Voce » letteraria, con buona pace delle tesi avanguardistiche del Baldacci. Ma in sostanza, sotto questo abito toscanistico, sia sul versante ideologico dell'antipolitica che su questo filosofico dell'antifilosofia, sia su quello artistico dell'avanguardia che su quello più genericamente di costume delle stroncature, prevale sempre il bisogno di prospettare una rivoluzione che abbia per soggetto, ancor più che l'intellettuale, il Papini-tipo e per oggetto un fittizio e generico mondo dello spirito: si leggano, esempi fra í tanti, Un uomo finito al capitolo Fare! (pp. 285-90, in cui il bisogno d'azione proclamato nel titolo resta risolto nell'invocazione di « tutte le forme dello spirito per la sollevazione dello spirito ») e L'esperienza futurista là dove (p. 459) vien sentenziato che « è necessario cambiare radicalmente tutta l'anima di molti uomini » e che « la vera rivoluzione comincia nelle teste e non già sulle barricate ». Occultati i processi storici reali, espunti (o solo toscanisticamente svillaneggiati) la politica e i suoi protagonisti, Papini si affanna in molte guise a ricostruire ideologicamente una controrealtà a misura di teppismo: e i documenti raccolti, peraltro tendenziosamente, dal Baldacci possono ben servire (a prescindere dell'ottica avanguardistico-fiorentina dell'introduzione) come conferma anche pedagogicamente utile dei dissesti culturali e politici che detto teppismo senza scampo comporta. Se invece si cercasse di pescar nel torbido e di usare quest'operazione editoriale per l'avallo delle tendenze al teppismo nelle sue forme attuali, sarà doveroso denunciare l'inattendibilità storica e teorica del tentativo, la sua equivocità politica 2.


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